La guerra rende tristi. La guerra è autodistruzione. Sarò sempre contro la guerra, perchè non sarei capace di vivere pensando a te in mezzo all'orrore.
“Buskashì,
viaggio dentro la guerra” di Gino Strada
Tempo di lettura: 6 minuti
Clap, Clap, Clap! Applausi signori, applausi! Ho deciso che solo
riportando uno stralcio di Buskashì avrei potuto rendere l’idea di
quello che stiamo andando a leggere. Per quanto mi riguarda, dovrebbe
essere più che sufficiente per convincervi a correre in libreria per
comprarlo o a visitare il sito www.emergency.it
nel quale è presente una sezione dedicata all’acquisto online di
prodotti firmati Emergency.
Le rovine delle torri gemelle stanno ancora fumando, e per la
prima volta la Cnn pronuncia il nome che molti stanno aspettando,
Osama bin Laden. “La risposta degli Stati Uniti non si farà
attendere,” assicurano i portavoce della Casa Bianca nelle prime
conferenze stampa.
Neanche di fronte al macello, alle urla e alle invocazioni di
aiuto di chi sta per morire, la specie umana è capace di fermarsi,
di riflettere. Ci sono ancora persone a brandelli là sotto, non
sappiamo ancora quanti stanno agonizzando tra le macerie di New York,
e già c’è chi pensa a un nuovo macello. Moriranno altri
innocenti. Chi sono le migliaia di sepolti sotto le torri gemelle o
tra le rovine del Pentagono, qual’è la percentuale di vittime
civili? E qual’è stata nei conflitti degli anni precedenti? Quanti
innocenti sono morti a Sarajevo e a Belgrado, a Mogadiscio e a
Baghdad, a Tel aviv e a Gaza e in tutti gli altri luoghi di guerra
del pianeta? Nove volte su dieci, in ciascuna delle guerre di oggi,
quel proiettile o quel razzo, quella bomba o quella mina hanno
colpito un bersaglio incolpevole. Sono innocenti le vittime sepolte
sotto le macerie delle torri. Saranno altrettanto innocenti le
vittime che già si programmano tra gli afgani, colpevoli di essere
stati invasi dai miliziani di Osama bin Laden. […] Non
sopporto le chiacchiere di molti politici che hanno già capito
tutto, individuato buoni e cattivi, e pontificano sul da farsi. So
benissimo, tra l’altro, che per molti di loro Osama fino a
stamattina poteva essere indifferentemente una città del Giappone o
una marca di preservativi. Eppure sono già in onda, specialisti
dell’indignarsi, perfino nel piangere se conviene farlo, pronti a
tutto fuorché a capire. Orgogliosi della guerra, nostalgici della
prima linea, non li sfiora neppure il dubbio che la guerra sia la più
grande vergogna della specie umana, una specie talmente poco
sviluppata da non riuscire ancora a trovare, dopo millenni di storia,
un modo per risolvere i propri problemi che non sia
l’autodistruzione. Una specie violenta, che benedice la violenza
individuale e di Stato, che pratica la violenza come deterrente
psicologico, che gode del proprio essere violenta. Una specie capace
di dare dignità di pensiero a bestialità quali “alla violenza si
risponde con la violenza”. […] Quando la Cnn, a mezzanotte
italiana, manda in onda bagliori notturni nel cielo di Kabul, il
telegiornalista si chiede in diretta: “È già iniziata la risposta
americana?”. Da più di vent’anni vi sono esplosioni quasi tutte
le notti a Kabul, ma lui lo ignora, perché la Cnn non gliele aveva
mai fatte vedere. In vent’anni quasi due milioni di afgani hanno
potuto tranquillamente morire per le bombe o per le mine, per il
freddo o per la fame. Due milioni di morti sono stati un dettaglio
trascurabile per la Cnn, per molti anno non hanno meritato copertura
mediatica. Questa volta, invece, è interessata a quel che succede in
Afganistan. Basta mezz’ora per chiarire l’equivoco: nessuna
risposta americana, le esplosioni di Kabul – in cui con ogni
probabilità qualcuno sarà stato fatto a pezzi – non c’entrano.
E allora spariscono dai notiziari, per dare spazio al giornalismo
vero, quello che mostra Bush e signora scendere dall’elicottero con
i due cagnolini al guinzaglio, per rassicurare gli americani che il
presidente c’è ancora, che è li a proteggerli dal nemico. Basta,
è ora di spegnere la televisione.
Gino Strada non ha bisogno di presentazioni. Con Buskashì ci
descrive il viaggio che un team di Emergency compie attraverso
l’Afganistan, sotto i bombardamenti, per riaprire l’ospedale di
Kabul, mentre tutte le organizzazioni internazionali lasciano il
paese. A Kabul c’è uno dei centri chirurgici per vittime di guerra
di Emergency, l’Emergency Surgical Centre For War Victims,
descritto come il più bello e il meglio fornito dell’Afganistan,
ma chiuso dal 17 maggio del 2001 a seguito dell’aggressione della
polizia religiosa dei talebani, gli uomini del ministero per la
Prevenzione del vizio e la Promozione della virtù. Un viaggio dentro
la guerra che inizia il giorno dell’assassinio del leader Ahmad
Shah Massud. È il 9 settembre 2001, due giorni prima dell’attentato
alle torri gemelle di New York.
Partiamo dal significato del titolo, Buskashì è un gioco nazionale
afgano: due squadre di cavalieri si contendono la carcassa decapitata
di una capra, è concessa ogni tipo di violenza, vincitrice sarà la
squadra che al termine del gioco avrà il possesso della carcassa o
di quel che ne rimane, la regola è che non ci sono regole. Il
tragico riferimento del titolo è quello al popolo afgano che, come
la capra decapitata, si trova conteso tra i numerosi partecipanti del
conflitto.
Il libro, a mio avviso interessantissimo, tratta varie tematiche che
gravitano intorno alla parola guerra: dalla politica internazionale,
al ruolo delle organizzazioni umanitarie negli scenari di crisi, ai
perché del confitti dando, ovviamente, un ruolo primario alle
vittime civili.
È un libro che chiede al lettore di guardare la guerra da punti di
vista diversi da quelli che è abituato ad avere. Chiede al lettore
lo sforzo di informarsi, di osservare i conflitti da un un punto di
vista alternativo rispetto a quello offerto dall’informazione di
Stato. Perché l’informazione è un’arma molto potente. Strada
affida ai suoi lettori il compito di appassionarsi, e a tal fine
offre le sue conoscenze e le sue considerazioni. Il suo punto di
vista non è quello di un estraneo, che dall’alto della sua comoda
poltrona situata su una villa al mare, decreta i perché della
guerra. Il suo punto di vista è quello di uomo che la guerra non la
vuole, che non è costretto a subirla, ma che ci si butta in mezzo
con un solo unico obiettivo, aiutare. Aiutare le vittime,
semplicemente rendere concreto e reale quel che viene proclamato
nella dichiarazione dei diritti universali dell’uomo, non a caso
pubblicata in appendice.
Con uno stile semplice e diretto, ci racconta i luoghi che incontra
nel viaggio. La descrizione della strada che collega Islamabad a
Peshawar è breve ma efficace: Impossibile concentrarsi sulla
bellezza imponente del fiume Indo, mentre si viaggia per quella
strada. Camion sgangherati corrono a velocità folle, carichi oltre
ogni limite di sacchi e scatoloni sopra cui stanno appollaiate decine
di “passeggeri”, e poi trattori, e carretti trascinati da
cavalli. Quando un autobus aziona il clacson in continuazione,
significa letteralmente “ adesso ti sorpasso, io non mi fermo: se
necessario, e se ce la fai, buttati da parte”. A
Peshwar c’è il bazar più bello dell’Asia, unico, a
cui dedicare ogni pomeriggio libero, percorrerlo in ogni stradina
fino a trovare la via dell’argento, centinaia di negozietti pieni
di gioielli molto poveri, quasi tutti arrivati dall’Afghanistan.
[…] Peshawar, sempre piena di afgani e di burqa. Peshawar
misteriosa e affascinante, ma anche Peshawar sempre piena di teste
calde. Dove in qualche punto del Bazar si può sempre comprare
un kalashnikov, o piazzare l’ordine per duemila razzi.
Nel suo viaggio dentro la guerra Strada espone le sue riflessioni in
maniera forte e senza mezzi termini. Mette in evidenza l’assurdità
delle organizzazioni internazionali umanitarie e delle agenzie
umanitarie Onu, create al fine di aiutare, sostenere, supportare le
popolazioni in difficoltà ma pronte a dileguarsi nei momenti in cui
le difficoltà raggiungono l’apice. Ma poi ritornano. Le Ong
ritornano e si moltiplicano. Interessante l’aneddoto nel quale
racconta di una Ong che offrì 5000 dollari al mese per avere in
affitto una delle case abitate da anni dal team di Emergency, fino a
quel momento pagata 300 euro. A mio avviso ancora più interessante
(sarà che ho fatto una tesi di laurea a riguardo) è la spiegazione
che Strada offre del paradosso delle Ong umanitarie che dovrebbero
essere autonome e neutrali ma che nella concretezza (non tutte
ovviamente) dipendono da un governo o dalle Nazioni Unite, con tutti
i limiti che ne derivano.
Parlandoci dei perché della guerra in Afganistan Strada ci racconta
cosa succedeva tra Stati Uniti e Pakistan nel periodo antecedente il
2001. Gli Stati Uniti finanziavano e rifornivano di armi il Pakistan
durante la decennale occupazione sovietica. Milioni di dollari e un
numero smisurato di armi cadevano nelle mani di mujaheddin impegnati
nella guerriglia contro i sovietici. I combattenti della guerra santa
arrivavano dall’Egitto, dall’Arabia saudita, dallo Yemen,
dall’Algeria, dalla Libia e dal Sudan, ma anche dall’Iraq e dal
Qatar, magrebini, ceceni, filippini e pakistani. Tutti insieme ad
imparare l’arte del combattimento, messa a punto di esplosivi,
esecuzione di attentati. Tutto alla luce del sole, in campi di
addestramento sempre più numerosi. In quegli anni non era difficile
incontrare nelle vie di Peshawar il miliardario Osama bin Laden (nel
2001 considerato il nemico pubblico numero uno). Lui stava li a
reclutare e addestrare terroristi, per organizzare il terrorismo
militare islamico contro l’Occidente, finanziato dall’Occidente
stesso!
Strada cita il sofista Trasimaco quando, nella sua conversazione con
Socrate a proposito della giustizia, affermò che “il giusto altro
non è che l’utile del più forte”. In Afganistan molti esseri
umani sono morti, perché a molti è stato utile, e perché molti si
sono sentiti nel giusto. Mentre tutti agivano nel giusto i cittadini
dell’Afganistan venivano uccisi. Nonostante tutti abbiano agito in
difesa della libertà o della civiltà, della religione e della
patria, del mercato e della democrazia, nonostante tutti abbiano
agito per il “giusto”, non è stato giusto. Per niente.
Con Buskashì il fondatore di Emergency non lascia solo una
testimonianza del viaggio suo e dei suoi collaboratori, apre uno
spazio di riflessione nel quale mettere in primo piano il punto di
vista delle vittime innocenti della guerra. Toccanti i racconti dei
feriti accolti nei vari ospedali di Emergency, ospedali che sembrano
campionari di guerra; feriti da mine (pappagalli verdi), bombe,
razzi, cluster bomb. Uomini, donne, bambini che si affidano alle cure
di instancabili medici, pronti a turni di 24 ore ogni giorno.
La guerra rende tristi. La guerra è autodistruzione. La guerra è la
più grande vergogna della specie umana. Sostenitore convinto della
non violenza, Strada pone delle domande a se stesso, a noi, a tutti
senza mai abbandonare la speranza. Che cosa vuol dire guerra? Come si
sta a viverla? Che cosa si pensa, quando la si vive? Che cosa si
prova, dentro la guerra? Quali miserie, quali angosce, come si trema
durante la guerra? Proviamo a guardare alla realtà di chi ne viene
coinvolto, proviamo a passare il confine. Proviamo almeno a cercare
di capire la guerra. Proviamoci. Cominciamo ad ascoltare le storie,
storie vere, non manipolate, storie di uomini. Fare propria,
rispettare l’esperienza degli altri, quello che stanno provando,
non ignorarla solo perché riguarda “altri” anziché noi stessi.
Ignorare la sofferenza di un uomo è sempre un atto di violenza, e
tra i più vigliacchi.
Il vero punto di forza di questo diario è la capacità di spingere
il lettore a cercare l’umanità e ripudiare la guerra, qualunque
sia l’appellativo, falso, che le viene dato. No alla guerra, no
alla guerra umanitaria, no alla guerra compassionevole, no alla
guerra umana, no alla guerra giusta. 178 pagine di passione,
coraggio, sofferenza, amore, forza, paura, delusione, frustrazione,
impotenza. Il viaggio dentro la guerra di Strada è duro da masticare
e ingombrante da sostenere, ma è anche ricco di speranza.
Consigliatissimo!
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