La guerra rende tristi. La guerra è autodistruzione. Sarò sempre contro la guerra, perchè non sarei capace di vivere pensando a te in mezzo all'orrore.


Buskashì, viaggio dentro la guerra” di Gino Strada

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Clap, Clap, Clap! Applausi signori, applausi! Ho deciso che solo riportando uno stralcio di Buskashì avrei potuto rendere l’idea di quello che stiamo andando a leggere. Per quanto mi riguarda, dovrebbe essere più che sufficiente per convincervi a correre in libreria per comprarlo o a visitare il sito www.emergency.it nel quale è presente una sezione dedicata all’acquisto online di prodotti firmati Emergency.
Le rovine delle torri gemelle stanno ancora fumando, e per la prima volta la Cnn pronuncia il nome che molti stanno aspettando, Osama bin Laden. “La risposta degli Stati Uniti non si farà attendere,” assicurano i portavoce della Casa Bianca nelle prime conferenze stampa.
Neanche di fronte al macello, alle urla e alle invocazioni di aiuto di chi sta per morire, la specie umana è capace di fermarsi, di riflettere. Ci sono ancora persone a brandelli là sotto, non sappiamo ancora quanti stanno agonizzando tra le macerie di New York, e già c’è chi pensa a un nuovo macello. Moriranno altri innocenti. Chi sono le migliaia di sepolti sotto le torri gemelle o tra le rovine del Pentagono, qual’è la percentuale di vittime civili? E qual’è stata nei conflitti degli anni precedenti? Quanti innocenti sono morti a Sarajevo e a Belgrado, a Mogadiscio e a Baghdad, a Tel aviv e a Gaza e in tutti gli altri luoghi di guerra del pianeta? Nove volte su dieci, in ciascuna delle guerre di oggi, quel proiettile o quel razzo, quella bomba o quella mina hanno colpito un bersaglio incolpevole. Sono innocenti le vittime sepolte sotto le macerie delle torri. Saranno altrettanto innocenti le vittime che già si programmano tra gli afgani, colpevoli di essere stati invasi dai miliziani di Osama bin Laden. […] Non sopporto le chiacchiere di molti politici che hanno già capito tutto, individuato buoni e cattivi, e pontificano sul da farsi. So benissimo, tra l’altro, che per molti di loro Osama fino a stamattina poteva essere indifferentemente una città del Giappone o una marca di preservativi. Eppure sono già in onda, specialisti dell’indignarsi, perfino nel piangere se conviene farlo, pronti a tutto fuorché a capire. Orgogliosi della guerra, nostalgici della prima linea, non li sfiora neppure il dubbio che la guerra sia la più grande vergogna della specie umana, una specie talmente poco sviluppata da non riuscire ancora a trovare, dopo millenni di storia, un modo per risolvere i propri problemi che non sia l’autodistruzione. Una specie violenta, che benedice la violenza individuale e di Stato, che pratica la violenza come deterrente psicologico, che gode del proprio essere violenta. Una specie capace di dare dignità di pensiero a bestialità quali “alla violenza si risponde con la violenza”. […] Quando la Cnn, a mezzanotte italiana, manda in onda bagliori notturni nel cielo di Kabul, il telegiornalista si chiede in diretta: “È già iniziata la risposta americana?”. Da più di vent’anni vi sono esplosioni quasi tutte le notti a Kabul, ma lui lo ignora, perché la Cnn non gliele aveva mai fatte vedere. In vent’anni quasi due milioni di afgani hanno potuto tranquillamente morire per le bombe o per le mine, per il freddo o per la fame. Due milioni di morti sono stati un dettaglio trascurabile per la Cnn, per molti anno non hanno meritato copertura mediatica. Questa volta, invece, è interessata a quel che succede in Afganistan. Basta mezz’ora per chiarire l’equivoco: nessuna risposta americana, le esplosioni di Kabul – in cui con ogni probabilità qualcuno sarà stato fatto a pezzi – non c’entrano. E allora spariscono dai notiziari, per dare spazio al giornalismo vero, quello che mostra Bush e signora scendere dall’elicottero con i due cagnolini al guinzaglio, per rassicurare gli americani che il presidente c’è ancora, che è li a proteggerli dal nemico. Basta, è ora di spegnere la televisione.
Gino Strada non ha bisogno di presentazioni. Con Buskashì ci descrive il viaggio che un team di Emergency compie attraverso l’Afganistan, sotto i bombardamenti, per riaprire l’ospedale di Kabul, mentre tutte le organizzazioni internazionali lasciano il paese. A Kabul c’è uno dei centri chirurgici per vittime di guerra di Emergency, l’Emergency Surgical Centre For War Victims, descritto come il più bello e il meglio fornito dell’Afganistan, ma chiuso dal 17 maggio del 2001 a seguito dell’aggressione della polizia religiosa dei talebani, gli uomini del ministero per la Prevenzione del vizio e la Promozione della virtù. Un viaggio dentro la guerra che inizia il giorno dell’assassinio del leader Ahmad Shah Massud. È il 9 settembre 2001, due giorni prima dell’attentato alle torri gemelle di New York.  

  Partiamo dal significato del titolo, Buskashì è un gioco nazionale afgano: due squadre di cavalieri si contendono la carcassa decapitata di una capra, è concessa ogni tipo di violenza, vincitrice sarà la squadra che al termine del gioco avrà il possesso della carcassa o di quel che ne rimane, la regola è che non ci sono regole. Il tragico riferimento del titolo è quello al popolo afgano che, come la capra decapitata, si trova conteso tra i numerosi partecipanti del conflitto.

 Il libro, a mio avviso interessantissimo, tratta varie tematiche che gravitano intorno alla parola guerra: dalla politica internazionale, al ruolo delle organizzazioni umanitarie negli scenari di crisi, ai perché del confitti dando, ovviamente, un ruolo primario alle vittime civili.
È un libro che chiede al lettore di guardare la guerra da punti di vista diversi da quelli che è abituato ad avere. Chiede al lettore lo sforzo di informarsi, di osservare i conflitti da un un punto di vista alternativo rispetto a quello offerto dall’informazione di Stato. Perché l’informazione è un’arma molto potente. Strada affida ai suoi lettori il compito di appassionarsi, e a tal fine offre le sue conoscenze e le sue considerazioni. Il suo punto di vista non è quello di un estraneo, che dall’alto della sua comoda poltrona situata su una villa al mare, decreta i perché della guerra. Il suo punto di vista è quello di uomo che la guerra non la vuole, che non è costretto a subirla, ma che ci si butta in mezzo con un solo unico obiettivo, aiutare. Aiutare le vittime, semplicemente rendere concreto e reale quel che viene proclamato nella dichiarazione dei diritti universali dell’uomo, non a caso pubblicata in appendice.
Con uno stile semplice e diretto, ci racconta i luoghi che incontra nel viaggio. La descrizione della strada che collega Islamabad a Peshawar è breve ma efficace: Impossibile concentrarsi sulla bellezza imponente del fiume Indo, mentre si viaggia per quella strada. Camion sgangherati corrono a velocità folle, carichi oltre ogni limite di sacchi e scatoloni sopra cui stanno appollaiate decine di “passeggeri”, e poi trattori, e carretti trascinati da cavalli. Quando un autobus aziona il clacson in continuazione, significa letteralmente “ adesso ti sorpasso, io non mi fermo: se necessario, e se ce la fai, buttati da parte”. A Peshwar c’è il bazar più bello dell’Asia, unico, a cui dedicare ogni pomeriggio libero, percorrerlo in ogni stradina fino a trovare la via dell’argento, centinaia di negozietti pieni di gioielli molto poveri, quasi tutti arrivati dall’Afghanistan. […] Peshawar, sempre piena di afgani e di burqa. Peshawar misteriosa e affascinante, ma anche Peshawar sempre piena di teste calde. Dove in qualche punto del Bazar si può sempre comprare un kalashnikov, o piazzare l’ordine per duemila razzi.
Nel suo viaggio dentro la guerra Strada espone le sue riflessioni in maniera forte e senza mezzi termini. Mette in evidenza l’assurdità delle organizzazioni internazionali umanitarie e delle agenzie umanitarie Onu, create al fine di aiutare, sostenere, supportare le popolazioni in difficoltà ma pronte a dileguarsi nei momenti in cui le difficoltà raggiungono l’apice. Ma poi ritornano. Le Ong ritornano e si moltiplicano. Interessante l’aneddoto nel quale racconta di una Ong che offrì 5000 dollari al mese per avere in affitto una delle case abitate da anni dal team di Emergency, fino a quel momento pagata 300 euro. A mio avviso ancora più interessante (sarà che ho fatto una tesi di laurea a riguardo) è la spiegazione che Strada offre del paradosso delle Ong umanitarie che dovrebbero essere autonome e neutrali ma che nella concretezza (non tutte ovviamente) dipendono da un governo o dalle Nazioni Unite, con tutti i limiti che ne derivano.
Parlandoci dei perché della guerra in Afganistan Strada ci racconta cosa succedeva tra Stati Uniti e Pakistan nel periodo antecedente il 2001. Gli Stati Uniti finanziavano e rifornivano di armi il Pakistan durante la decennale occupazione sovietica. Milioni di dollari e un numero smisurato di armi cadevano nelle mani di mujaheddin impegnati nella guerriglia contro i sovietici. I combattenti della guerra santa arrivavano dall’Egitto, dall’Arabia saudita, dallo Yemen, dall’Algeria, dalla Libia e dal Sudan, ma anche dall’Iraq e dal Qatar, magrebini, ceceni, filippini e pakistani. Tutti insieme ad imparare l’arte del combattimento, messa a punto di esplosivi, esecuzione di attentati. Tutto alla luce del sole, in campi di addestramento sempre più numerosi. In quegli anni non era difficile incontrare nelle vie di Peshawar il miliardario Osama bin Laden (nel 2001 considerato il nemico pubblico numero uno). Lui stava li a reclutare e addestrare terroristi, per organizzare il terrorismo militare islamico contro l’Occidente, finanziato dall’Occidente stesso!
Strada cita il sofista Trasimaco quando, nella sua conversazione con Socrate a proposito della giustizia, affermò che “il giusto altro non è che l’utile del più forte”. In Afganistan molti esseri umani sono morti, perché a molti è stato utile, e perché molti si sono sentiti nel giusto. Mentre tutti agivano nel giusto i cittadini dell’Afganistan venivano uccisi. Nonostante tutti abbiano agito in difesa della libertà o della civiltà, della religione e della patria, del mercato e della democrazia, nonostante tutti abbiano agito per il “giusto”, non è stato giusto. Per niente.
Con Buskashì il fondatore di Emergency non lascia solo una testimonianza del viaggio suo e dei suoi collaboratori, apre uno spazio di riflessione nel quale mettere in primo piano il punto di vista delle vittime innocenti della guerra. Toccanti i racconti dei feriti accolti nei vari ospedali di Emergency, ospedali che sembrano campionari di guerra; feriti da mine (pappagalli verdi), bombe, razzi, cluster bomb. Uomini, donne, bambini che si affidano alle cure di instancabili medici, pronti a turni di 24 ore ogni giorno.
La guerra rende tristi. La guerra è autodistruzione. La guerra è la più grande vergogna della specie umana. Sostenitore convinto della non violenza, Strada pone delle domande a se stesso, a noi, a tutti senza mai abbandonare la speranza. Che cosa vuol dire guerra? Come si sta a viverla? Che cosa si pensa, quando la si vive? Che cosa si prova, dentro la guerra? Quali miserie, quali angosce, come si trema durante la guerra? Proviamo a guardare alla realtà di chi ne viene coinvolto, proviamo a passare il confine. Proviamo almeno a cercare di capire la guerra. Proviamoci. Cominciamo ad ascoltare le storie, storie vere, non manipolate, storie di uomini. Fare propria, rispettare l’esperienza degli altri, quello che stanno provando, non ignorarla solo perché riguarda “altri” anziché noi stessi. Ignorare la sofferenza di un uomo è sempre un atto di violenza, e tra i più vigliacchi.
Il vero punto di forza di questo diario è la capacità di spingere il lettore a cercare l’umanità e ripudiare la guerra, qualunque sia l’appellativo, falso, che le viene dato. No alla guerra, no alla guerra umanitaria, no alla guerra compassionevole, no alla guerra umana, no alla guerra giusta. 178 pagine di passione, coraggio, sofferenza, amore, forza, paura, delusione, frustrazione, impotenza. Il viaggio dentro la guerra di Strada è duro da masticare e ingombrante da sostenere, ma è anche ricco di speranza. Consigliatissimo!


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