“Le ragazze di Kabul” di Roberta Gately
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Partiamo dalle ragioni del no perché i meno da assegnare a questo
romanzo non sono pochi.
La trama, elemento essenziale, è decisamente scontata. Elsa, giovane
infermiera americana, decide di partire volontaria in Afghanistan,
quasi contemporaneamente all’attacco terroristico alle torri
gemelle di New York. Nel piccolo villaggio di Bamiyan, si scontrerà
con una realtà completamente diversa da quella a cui era abituata,
farà amicizia con persone autoctone, si innamorerà di un giovane
soldato americano e vissero tutti felici e contenti.
Alcune vicende, come per esempio la motivazione che spinge Elsa ad
offrirsi volontaria per partire con Aide du Monde, toccano il limite
della banalità.
Il titolo italiano non ha alcun legame con la storia dal momento che
non si parla di ragazze di Kabul, ma al massimo di ragazze a Bamiyan.
Kabul viene praticamente solo nominata qua e là. Non capisco quale
ostacolo sia stato riscontrato in fase di traduzione visto che il
titolo originale "Lipstick in Afghanistan" (Rossetto in
Afghanistan) era semplice e molto più fedele al contenuto della
storia .
La cosa peggiore però è la tragica impostazione filoamericana. Che
fatica leggere un libro che descrive, più e più volte, gli
americani come angeli caduti dal cielo per portare progresso e pace.
Che fatica.
Quando i vostri soldati sono scesi dal cielo è proprio qui che
sono atterrati. Con i paracadute bianchi che si gonfiavano sopra le
loro teste, eravamo sicuri che fossero angeli mandati da Allah, e
alcuni lo credono ancora.
Queste le cose peggiori del libro.
Sulla scrittura posso dirvi che mi viene da associarla a quella di
Fabio Volo. Decidete voi se questo rappresenti un pregio oppure un
difetto.
Passiamo ora ai più e quindi alle note positive. Il romanzo offre
spunti di riflessione su un paese del quale tutti continuiamo a
sapere poco e quel poco che sappiamo spesso non è totalmente
corretto. Apprezzabili i racconti della condizione della donna in
Afghanistan, del suo ruolo all’interno della famiglia e della
società. Come un po' succede con tutti i libri che trattano
l’argomento, è interessante riflettere sull’emancipazione della
donna e sul difficile e lungo cammino che una parte dell’umanità
deve ancora percorrere.
Non dispiace anche la parte dedicata alla seconda protagonista del
romanzo, la giovane, coraggiosa e testarda Parween, attraverso la
quale si fa qualche riferimento alla condizioni di occupazione e
guerra in cui da numerosi anni di trova il paese e si raccontano le
restrizioni delle libertà individuali sotto l’occupazione talebana
La scrittrice, Roberta Gately, realmente è stata volontaria in paesi
in difficoltà tra cui, appunto, l’Afghanistan, per questo motivo
mi sarei aspettata decisamente qualcosa di più dalla sua penna. Non
parlo di stile narrativo, ma proprio di idee e contenuti. Romanzare
una storia non dovrebbe equivalere a banalizzarla; c’è un limite a
tutto.
Partendo poi dal presupposto che le parole sono importanti, mi
domando quale parte del libro abbia convinto il Premio Pulitzer Mark
Fritz a definire Gately una scrittrice di grande talento.
Il vero motivo per cui mi sento di non voler esprimere un giudizio
totalmente negativo credo sia da ricercare nell’importanza del tema
principale. L’Afghanistan, gli invasori, la condizione della donna,
la tradizione, la cultura, la guerra, la morte.
Personalmente tendo a essere affascinata da tutti i libri che parlano
dei Paesi nei quali le donne sono costrette dagli uomini a non poter
scegliere. Forse è semplice curiosità, forse è sete di sapere,
forse è il fastidio che nasce dall’immagine dell’imposizione del
burqa o dal divieto di fare rumore quando si cammina, perché la
donna deve essere invisibile. Ogni volta mi sembra di scoprire un
qualcosa in più.
Non è un libro che consiglierei perché trai romanzi che trattano il
tema c’è decisamente di meglio, ma non avrò la nausea al pensiero
che decidiate di leggerlo. L’unico consiglio che mi sento di darvi
è di non comprarlo, al massimo fatevelo prestare o prendetelo in
biblioteca.
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