“Il libro
dell’inquietudine” di Bernardo Soares, di Fernando Pessoa
Tempo di lettura: 5 minuti
Difficile, estremamente difficile parlare di quest’opera!
Se avete intenzione di tentare di leggere e capire questo libro, beh
armatevi di tanta, tanta pazienza. Non abbiate fretta, non
terminerete di leggerlo in due giorni e neanche in una settimana. Non
ci sono capitoli, non c’è trama, non c’è storia, non ci sono
personaggi (se escludiamo Soares e il suo principale Vasques).
Quanto tempo prima di riuscire a leggerlo tutto; iniziato,
abbandonato, ripreso, abbandonato di nuovo fino ad impormi di
farcela, di assaporarlo fino alla fine per poter finalmente farmene
un’idea. Avete presente la durata della gravidanza della cavalla?
Ecco, tanto c’è voluto perché io riuscissi a finirlo.
Ma mi consolo pensando che se Pessoa ha impiegato circa vent’anni
per scriverlo, non c’è niente di male ad impiegarne uno per
leggerlo!
Partiamo dal principio, perché ho questo libro tra le mani? Un
regalo, da parte di una persona che questo libro lo ha divorato più
e più volte, coccolato, maneggiato, apprezzato, vissuto. Quando ho
terminato di leggerlo mi ha detto “Ti ha creato qualcosa? Per me è
una droga”.
Il libro dell’inquietudine non è un libro, anzi è un libro che
non esiste. Va bene, non mi state capendo. Questo testo non è
totalmente frutto di Pessoa, o meglio, è una raccolta di pensieri,
trovata dopo la sua morte nascosta dentro un baule. Per cui le
persone che hanno deciso di riunire i pensieri sparsi dell’autore
per dare vita ad un libro, lo hanno fatto autonomamente, decidendo di
inserire tutto o solo parte del materiale, ordinandolo secondo il
loro gusto personale (chi in ordine cronologico, chi per tematiche).
Superfluo dirvi che non ho letto il libro in lingua originale (Livro do Desassoego), ma mi sono affidata alla traduzione italiana che Maria José de Lancastre e Antonio Tabucchi hanno curato per la Feltrinelli.
Antonio
Tabucchi definisce il libro un romanzo, anzi un doppio romanzo in
quanto Pessoa inventa il personaggio di Bernardo Soares delegandogli
il compito di scrivere un diario. Mi domando quale ragionamento abbia
seguito per giungere a definire così questo libro, dal momento che
potrebbe essere classificato in vari modi, come una raccolta di
pensieri per esempio oppure un diario, ma un romanzo proprio no.
D’altronde è lo stesso Soares a spiegarci cosa sia quel che stiamo
leggendo: Invidio – ma non so se è invidia – coloro dei quali
si può scrivere una biografia, o che possono scrivere la propria. In
questi miei appunti sconnessi, e che non ambiscono ad avere un nesso,
racconto con indifferenza la mia autobiografia priva di avvenimenti,
la mia storia priva di vita. Sono le mie confessioni, e se in esse
non dico niente è perché non ho niente da dire.
Superata la classificazione occupiamoci dell’autore, Bernando
Soares. Provate a cercare la sua pagina su Wikipedia, sorpresa, non
la troverete. Soares non è altro che un personaggio inventato da
Pessoa, al quale quest’ultimo affida la sua penna. È quel fenomeno
letterario che viene definito eteronomia (diverso dall’utilizzare
uno pseudonimo) nel quale il personaggio, creato da zero dallo
scrittore, diventa una figura a sé stante, autonoma, con
caratteristiche e pensieri che non combaciano per forza con quelli
dello scrittore.
Nella prefazione Tabucchi ci presenta il protagonista come un uomo
che sta alla finestra. Un contabile di Lisbona, che dal suo ufficio
spia la vita, esterna ed estranea anche se gli transita accanto, e
spia il suo dentro, ignoto ed estraneo al suo stesso abitatore.
Inutile commentare la capacità di scrivere dell’autore, è un
poeta anzi, un Poeta. Volete un assaggio?
In ogni goccia di pioggia la mia vita fallita piange nella natura.
C’è un po’ della mia inquietudine nel gocciolio, nelle raffiche
attraverso le quali la tristezza della giornata si rovescia
inutilmente sulla terra.
Soares ci parla della sua anima, anima che in parte è anche la
nostra. Ma si può descrivere un anima? Lui ci prova: La mia anima è una misteriosa orchestra; non so quali strumenti suoni
e strida dentro di me: corde e arpe, timballi e tamburi. Mi conosco
come una sinfonia.
Tedio, pena, tormento, compassione, solitudine, nostalgia, angoscia, troverete questi temi ripetuti all'infinito. Si tratta di argomenti complessi, esposti con forza, una forza così potente da riuscire ad aprire una finestra, rivolta al nostro interno, sulla quale e dalla quale affacciarci, soffermandoci a riflettere a lungo. Nel bene o nel male, d'accordo o meno con i pensieri di Soares, ogni riga ci impone di bloccarci, alzare lo sguardo verso un punto lontano e pensare, magari anche solo per decidere di non essere d'accordo o di non esserlo completamente, o magari per aggiungere una visione nostra più positiva, o semplicemente per pensare quanto sia vero quel che stiamo leggendo. Ma l'unica cosa importante è che ci fermiamo, perché è Pessoa ad obbligarci. Lo scrittore riesce a mettere nero su bianco sensazioni difficili da descrivere. La sua penna si trascina sconnessa e non lineare, scrive per sé stesso, non per gli altri, perché ciò che sente è opprimente: Cosa c'è da confessare che valga la pena o che sia utile? Quello che è successo a noi, o è successo a tutti o esclusivamente a noi; nel primo caso non è una novità e nel secondo caso non è una cosa che si possa capire. Se scrivo ciò che sento è perché così facendo abbasso la febbre di sentire. E scrivendo il poeta si perde all'interno del labirinto che sono la sua testa e il suo animo, e dà modo a noi di entrare nel nostro labirinto. È un libro che aggredisce la nostra mente, con garbata violenza. Un libro che descrive i moti
dell’anima e gli stati della mente. Un libro che ci trascina
all’interno di un’agonia personale.
Non è certamente una lettura che consiglierei a tutti, men che meno
ai lettori occasionali o a coloro che non essendo mai andati oltre le
letture scolastiche obbligatorie, come Il giovane Holden, decidano di
approcciarsi alla lettura. È un libro triste, anzi tristissimo,
difficile ed estremamente impegnativo (anche se ammetto che due
righe, o forse tre, mi hanno strappato un sorriso). È un libro da
portare con sé ovunque, da sfogliare come un oracolo, basta aprire
una pagina a caso e lasciarsi ipnotizzare.
Da qualche parte, tempo fa, ho letto che quest’opera potrebbe
essere consigliata a chi è consapevole della propria vita e di
quello che è. Se ritenete di essere questo tipo di persone allora
non abbiate timore, la verità, il disagio, l’ansia, l’angoscia
che troverete in queste pagine saranno sicuramente stati d’animo a
voi già noti e con i quali spesso vi confronterete. Mi sento però
di dover aggiungere che io lo consiglierei anche a chi ha capito di
non sapere, a chi ancora non è sicuro di quel che è, a chi vorrebbe
scoprire in quale direzione sta andando, perché e in quale modo. Ma
qualunque sia la categoria nella quale vi riconoscerete, siate certi
che questo testo farà male, scaverà nei vostri buchi e mostrerà le
vostre incertezze, ma farà anche bene e, forse, vi aiuterà a
riemergere, forse sarà la vostra terapia, forse.
Leggere Il libro dell'inquietudine è un'esperienza insolita, ma della quale non dovremmo privarci. Quindi abbandonate la frivolezza e la superficialità voi che vi addentrate e scavate
nell’abisso del vostro animo.
P.S. Dal momento che citando tutto quello che vorrei, rischio di far
diventare queste pagine più di 280 (tante sono quelle del libro), ho
deciso di riportare a fine commento alcuni pezzi, ottimi spunti di
riflessione per tutti. Ma vi avviso, leggendo il libro capirete che
andrebbe citato per intero, senza saltare neanche una virgola.
Per tutti noi c’è un signor Vasques, per alcuni visibile, per
altri invisibile. Per me si chiama veramente Vasques ed è un uomo
sano, garbato, talvolta brusco ma senza doppiezza, egoista ma in
fondo giusto, con una sua giustizia che manca a molti grandi geni e a
molte meraviglia della civiltà umana di destra e di sinistra. [...]
L’altro giorno un amico ha notato che il mio stipendio è
basso. “Lei si fa sfruttare, Borges,” mi ha detto. La sua
osservazione mi ha fatto pensare che mi lascio effettivamente
sfruttare; ma siccome nella vita tutti dobbiamo essere sfruttati, mi
domando se non sarà meglio essere sfruttato da un Vasques dei
tessuti piuttosto che dalla vanità, dalla gloria, dal dispetto,
dall’invidia o dall’impossibile. Ci sono uomini che sono
sfruttati perfino da Dio.
Ho avuto grandi ambizioni e sogni turgidi – ma i sogni li hanno
avuti anche il garzone e la sartina, perché tutti sognano. Quello
che distingue le persone le une dalle altre è la forza di farcela, o
di lasciare che sia il destino a farla a noi.
La monotonia delle vite comuni è apparentemente terribile. Sto pranzando in questo dozzinale ristorante e guardo, oltre il banco, la figura del cuoco e, vicino a me, il vecchio cameriere che mi serve come, da trent'anni credo, serve in questa trattoria. Che vita è la vita di questi uomini? Da quarant'anni quell'uomo passa quasi tutta la giornata in una cucina; gli sono consentite brevi pause; dorme poche ore; ogni tanto torna al suo paesino [...] mette da parte lentamente denaro lento che non intente spendere [...]. Sta a Lisbona da quarant'anni e non è mai stato alla Rotunda né a un teatro [...]. Ha quattro figli e una figlia, e il suo sorriso nel chinarsi dall'altra parte del banco esprime una grande, solenne, soddisfatta felicità. [...] E il vecchio cameriere che mi serve ha appena posato davanti a me quello che dev'essere il milionesimo caffè dell'atto di posare un caffè sui tavoli? Conduce la stessa vita del cuoco, a soli quattro o cinque metri di distanza [...]. Per il resto ha solo due figli, va più spesso in Galizia, ha visto più Lisbona dell'altro e conosce Oporto dove ha vissuto per quattro anni - ed è ugualmente felice. Rivedo, con una meraviglia sgomenta, il panorama di queste vite e, nel provare spavento e pena e sdegno, mi accorgo che non provano né pena né sdegno proprio coloro che ne avrebbero tutto il diritto: coloro che vivono quella vita.
Sapendo perfettamente come le cose insignificanti abbiano la capacità di torturarmi, evito deliberatamente il contatto con le cose insignificanti. Chi, come me, soffre quando una nuvola passa davanti al sole, come potrebbe non soffrire nell'oscurità del giorno perennemente annuvolato della sua vita? La mia solitudine non consiste in una ricerca di felicità, che non ho la forza di raggiungere; né di tranquillità, che si ottiene soltanto se non la si è mai perduta. Ma è una ricerca di sonno, di annullamento, di piccola rinuncia.
Ho voglia di gridare dentro la testa. Voglio fermare, schiacciare, rompere quell'impossibile disco di grammofono che suona dentro di me, in una casa altrui, torturatore intangibile. Voglio fermare l'anima affinché essa [...] prosegua da sola e mi lasci. Divento pazzo per il fatto di dover sentire.
Amici, nessuno. Solo alcuni conoscenti che credono di simpatizzare con me e cui forse dispiacerebbe se finissi sotto un treno e il funerale avvenisse in un giorno di pioggia.
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