Una volta dentro il cliché bisogna solo andare avanti.

 "Panino al prosciutto" di Charles Bukowski

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Ah, Bukowski, Charles Bukowski!
In che modo descrivere Panino al prosciutto se non con il nome del genio che l'ha creato?
Basta pronunciare il nome di Hank. Lui, lui nella sua grandezza. Questo libro è la sua perla. Continuo a domandarmi come io sia riuscita ad arrivare a 30 anni rinviando questa lettura. Possibile abbia compiuto questo sacrilegio?
Me ne avevano parlato, me lo avevano consigliato, lo avevano vantato e io, io mi ripromettevo sempre di leggerlo, ma si sa, di libri ne è pieno il mondo e lui, lui stava in libreria ad aspettarmi. Avevo già letto quelli che per me erano suoi capolavori, l'amore per quel vecchio uomo diverso era scoccato anni fa, ma mai, mai avrei pensato di poterlo amare ancora di più. E quindi grazie Hank! Grazie per questo tesoro inestimabile che ci lasci.

Lo ammetto, sono un po' intimorita dall'idea di commentare un suo libro. Temo di cadere nella banalità, di definirlo, di classificarlo, e se c'è qualcosa che ho capito leggendo i suoi lavori, è che Charles odiava essere incastrato in un ruolo.
Chi era mai il colonnello Sussex? Un tizio qualunque, che cacava e pisciava come tutti gli altri. Conformarsi, trovare un cliché che si adattasse alla propria persona, era una necessità. Medico, avvocato, militare... non importava. E una volta dentro il cliché, bisognava andare avanti. Sussex era fottuto come tutti gli altri. O ci si dava da fare, o si moriva di fame per la strada.”
Bukowski è di sicuro un personaggio ambiguo, duro ma tenero, coraggioso ma debole, sentimentale anche se forse non si direbbe. Mi scuso, devo già correggermi, ho appena commesso l'errore di classificarlo. È più corretto dire quel che secondo me Bukowski è, o meglio, era. Sapere che non c'è più e che dovremmo accontentarci delle opere che ci ha lasciato, senza avere la speranza che continui a sfornare gioielli, è una brutta sensazione.
Leggere i suoi libri è un'esperienza rara, difficile trovare qualcosa o qualcuno che gli si possa assomigliare. Ho impiegato anni a cercare qualche scrittore che potesse appagarmi come Charles, e a oggi, per quanto abbia trovato molto materiale valido, purtroppo al pari di lui non sono riuscita a trovare nessuno (si accettano consigli a riguardo). È chiaro che non sto dicendo che non ci sono stati e non ci sono tutt'oggi validi scrittori, tantissime penne vantano la mia stima e la mia approvazione (diversamente la mia esperienza da lettrice si sarebbe già conclusa), ma Bukowski rappresenta un genere a se stante, un suo libro lo riconosci senza bisogno di guardare la copertina, poche frasi sono sufficienti per capire che dietro c'è Hank.
C'è in lui quella caratteristica rara, quasi esclusiva, di voler semplicemente scrivere, scrivere per se stesso e per gli altri, nella speranza di poter esprimersi, e non un celato intento di diventare famoso, o peggio, un profeta. Lui vuole solo scrivere, provocare, raccontare il mondo visto dai suoi occhi, un mondo disincantato, reale, fatto da storie quotidiane, storie di vita, storie di sentimenti che sopravvivono alle vicende della vita, storie dell'uomo qualunque, senza la necessità di utilizzare fronzoli, artifici letterari, termini astrusi, solo parole semplici, parole comuni, parole vere.
Questo libro tocca così tanti temi che tentare di elencarli tutti è un'impresa ardua. Quel che posso anticiparvi è che parliamo di un libro molto autobiografico, in cui Hank evidenzia alcuni degli aspetti che hanno caratterizzato la sua infanzia. Mette in risalto il rapporto con i genitori, o meglio il non rapporto, un silenzio assordante all'interno di quella che convenzionalmente viene definita famiglia ma di amore, e quindi famiglia, non ha niente. La mancanza di dialogo, la forza bruta di un non padre per affermare la sua supremazia, le critiche continue contro tutto e tutti, soprattutto verso i propri simili, nel tentativo esasperato di distinguersi da quel che viene considerato il peggio, di qualificarsi migliori, il continuo negare di essere come gli altri.
Bukowski racconta con onestà disarmante la sua infanzia, passando dalle mura domestiche a quelle scolastiche, raccontando una solitudine che lo inseguiva come la sua ombra e che lui stesso rincorreva. Racconta l'emarginazione tra i banchi di scuola, così come sulla strada. Racconta la massa che lo circonda ma raramente lo tocca, a volte lo sfiora, anzi, a volte lui si lascia sfiorare. Noi che leggiamo siamo li con lui, vorremmo a volte dargli un consiglio, a volte difenderlo, a volte sgridarlo, ma siamo li con lui. Charles ci porta dentro quel mondo, perché il mondo che lui vede, è il mondo di cui anche noi facciamo parte, seppur ognuno con ruoli diversi. Osserva gli altri, ma in primis osserva se stesso, osserva con un occhio critico, ironico, reale, distante, spassionato.
Anche in queste 327 pagine non manca la descrizione del suo rapporto con l'alcool, mentre minore è lo spazio che Charles riserva alle donne, sempre presenti certo, ma alle quali dedica un'attenzione diversa rispetto a quello che si legge in altri scritti (vedi Donne o Storie di ordinaria follia. Erezioni Eiaculazioni Esibizioni).
Mi sedetti sul divano. Ubriacarsi era bello. Decisi che mi sarebbe sempre piaciuto. Bere mi liberava dall'ovvio, e forse se si riusciva a liberarsi spesso dell'ovvio non si finiva per diventare ovvii.”
Leggetelo, leggete tutto quel che ha scritto quest'uomo, sappiate apprezzarlo e per voi sarà fonte di ispirazione, diventerà ossigeno che andrete a ricercare sempre. Potreste non capirlo, sarebbe normale. Potrebbe anche succedere che non lo apprezziate, che lo riduciate ad un vecchio sporcaccione, come lui stesso si è spesso definito, un povero alcolizzato, una persona che non conosce l'amore, uno squallido uomo bastardo. Tutto ciò sarà ancora più normale, ma riducendolo a quello darete l'ennesima conferma a Bukowski che aveva ragione quando pensava che il mondo fosse pieno di mediocri che si rifiutano, o forse non sono in grado, di pensare.
Dalla bocca di Hank, Charles ci racconta il suo piacere nell'aver scoperto Hemingway, ed io penso che quelle stesse parole andrebbero rivolte allo stesso Bukowski: lui si che le sapeva metter giù le frasi. Le sue parole non erano mai noiose e ti facevano ronzare il cervello. Bastava leggerle, abbandonarsi alla magia.

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